Ho incominciato a incontrare famiglie con MH agli inizi degli anni ’80.
Una ricerca epidemiologica sulla malattia nel Lazio portò me e la collega Marina Frontali, medico genetista, ad effettuare molte visite domiciliari. Ricostruivamo alberi genealogici, spiegavamo le basi genetiche della malattia e imparavamo a conoscerne il decorso, a capire le dinamiche familiari legate all’ereditarietà, e quelle individuali determinate dall’essere a rischio. Sui testi di medicina di allora non c’era quasi niente sulla malattia, più pregiudizi che scienza. Nel corso di tutti questi anni sono circa 1.000 le persone che ho incontrato in diverse migliaia di ore di colloqui: pazienti sintomatici, persone a rischio venute a fare il test, coniugi e posso dire di conoscere la malattia e i problemi che pone.
Nel corso degli anni ho parlato anche con molti neurologi e da uno di loro ho ricavato un’interessante chiave di lettura del rapporto medico-paziente nella patologia che non può essere guarita. Parlando, appunto, di un paziente MH il neurologo mi dice: “Praticamente torna ogni 2-3 settimane, io sono a disagio, che posso fare per lui? Una volta modifico il dosaggio, la volta dopo sostituisco un farmaco, la terza volta che lo rivedo prescrivo una Risonanza, non serve ma sento che devo dargli qualcosa”.
Un dettaglio ulteriore me lo fornisce la madre di un giovane paziente. “Veniamo dalla Sicilia per questo ambulatorio, partiamo la notte in pullman con mio marito… una fatica… mentre facciamo il viaggio pensiamo a tutte le cose che le vogliamo raccontare… le sembrerà assurdo ma noi torniamo qui perché dopo un anno che non ci vedeva lei si ricordava il nome di nostro figlio, in questa disperazione non eravamo più sconosciuti, a qualcuno importava di noi.”
Dunque, il paziente che non può essere guarito e che torna anche a costo di sacrifici, non cerca un farmaco che sa non esistere, quello di cui ha bisogno è essere importante per qualcuno, la sua ricerca è di qualcosa che renda migliore la sua vita, che lo coinvolga in attività che lo facciano sentire meno malato, meno escluso dalla corrente di vita in cui sembra muoversi il resto del mondo. A questa aspettativa è il counseling psicologico che può dare risposta, che può aiutarlo a superare le sfide della lunga cronicità che lo attende e che ha distrutto la sua idea di futuro. Non si tratta di andare dal paziente e dirgli di farsi coraggio, si tratta di un intervento professionale specifico mirato a costruire, insieme al paziente, una ridefinizione del progetto di vita. In questo processo hanno un ruolo essenziale le attività terapeutico-riabilitative: riabilitazione respiratoria, logopedia, riabilitazione neuromotoria, cognitiva, terapia occupazionale.
A partire dal 1998 e per circa un decennio un nostro progetto di ricerca CNR con il Policlinico Gemelli dette vita alla prima esperienza che valutava qualitativamente e quantitativamente gli effetti di trattamenti riabilitativi intensivi in regime di ricovero di 3 settimane che venivano ripetuti 3 volte l’anno. Il tetto dei 60 giorni era determinato dal numero totale di giorni di terapia in regime di convenzione che i pazienti potevano avere in un anno. Si ebbero evidenze scientifiche di miglioramento sul piano motorio, funzionale e psicologico. I miglioramenti riverberavano sull’umore offrendoci un’immagine di malattia ben diversa da quella sempre collegata a depressione e suicidio – Ricordo in particolare tre signore che erano talmente migliorate da decidere di partire insieme per le Maldive!
Ovviamente la ricaduta psicologica positiva si estese all’intero nucleo familiare. Venendo a trovare il malato nel fine settimana i coniugi incontravano altri familiari, ed era un’occasione rara e preziosa per conoscere persone in grado di capire la loro esperienza. Sono nate diverse amicizie durature tra famiglie anche di regioni diverse che hanno continuato a frequentarsi. Molto positivo l’effetto anche sui figli a rischio che, per la prima volta, non solo vedevano il genitore malato in una luce diversa e più vitale ma capivano anche che esisteva la possibilità di reagire invece di attendere inermi la fine.
Appena lo studio fu pubblicato (Clinical Rehab, 2007) fummo contattati da terapisti della riabilitazione scandinavi che vennero a trovarci per imparare dalla nostra esperienza e riprodurla nel loro paese. Fu interessante il confronto fra terapisti che avevano la possibilità di vedere il paziente inguaribile con altri occhi, e finalmente percepirne non solo i limiti e le perdite ma anche le importanti risorse ancora disponibili.
La MH è un modello di patologia cronica, degenerativa ed ereditaria.
Questa molteplicità di sintomi definisce un quadro di intervento caratterizzato dalla complessità: paziente, coniuge/caregiver, familiari a rischio richiedono risposte integrate, cioè fornite da attori diversi ma sinergici, non in conflitto tra loro: sistema sanitario, sistema socio-assistenziale, associazionismo e volontariato.
Il solo modo di gestire la complessità è, nella mia esperienza, la flessibilità: visto che il paziente non può modificare la malattia, sono i servizi che devono fornire l’assistenza che serve nel modo in cui serve.
C’è un modo buono e utile di fornire i servizi, e uno cattivo e inutile. Di seguito qualche esempio dell’uno e dell’altro:
riconoscere la pensione e le diverse forme di assistenza previste al momento della presentazione della diagnosi formulata da ospedale idoneo. Si tratta di patologia inguaribile e irreversibile, di cui è noto e prevedibile il decorso;
estenuare le famiglie con passaggi da un ufficio all’altro fra mille ostacoli burocratici per ottenere pensione e assistenza, ritardarne l’erogazione lasciando che la famiglia affronti tutte le spese (casi di arretrati arrivati a paziente deceduto);
al momento della diagnosi, fornire al paziente e ai familiari indicazioni chiare e complete di tutti i servizi disponibili e i giusti riferimenti a strutture e professionisti competenti;
frammentazione delle informazioni, nulla è certo, i familiari vagano da una ASL all’altra, ostacoli nel fornire le ricette, conflittualità tra medici, modifiche arbitrarie di terapia;
nel quartiere, favorire attraverso centri di aggregazione una vita di relazioni con vicini e amici spiegando chi è il paziente e le sue difficoltà;
lasciar prevalere la reclusione in casa e l’isolamento sociale a causa dei pregiudizi (i sintomi neurologici sono spesso scambiati per alcolismo/tossicodipendenza);
sostenere la mobilità e la capacità di comunicazione del paziente attraverso assistenza domiciliare, cicli continuativi di terapia riabilitativa, sostegno psicologico; agevolare interventi per modifiche ambientali che favoriscono l’autonomia e il far da sé del paziente;
aspettare che il paziente peggiori prima di concedere poche sedute di terapia di breve durata (30 sedute da 30 m), negare ogni intervento di modifica ambientale, perché negare è più semplice che impegnarsi a trovare una soluzione, mantenere l’ambiente non idoneo (scale, spigoli) con rischio di cadute rovinose da cui fratture, traumi cranici e lunghi e costosi ricoveri ospedalieri;
in fase molto avanzata, se necessario, agevolare il ricovero in una struttura dove il personale medico e infermieristico sia informato sulla malattia e le necessità del paziente;
decidere il ricovero in strutture improprie: il paziente giovane ricoverato in istituto geriatrico, il paziente con solo sintomi motori ricoverato in istituto psichiatrico e, invariabilmente, in situazioni dove il personale non conosce la malattia e non è interessato a farlo.
Scegliamo due dei modi giusti e utili di fornire assistenza come richieste di AICH-Roma OdV:
riconoscere la pensione e le diverse forme di assistenza previste al momento della presentazione della diagnosi formulata da ospedale idoneo. Si tratta di patologia inguaribile e irreversibile, di cui è noto e prevedibile il decorso;
sostenere la mobilità e la capacità di comunicazione del paziente erogando cicli continuativi di terapia riabilitativa insieme a sostegno psicologico sin dall’inizio perché nelle patologie croniche progressive non si deve stare ad aspettare il peggioramento ma intervenire subito.
In ogni malattia ci sono da considerare due aspetti: uno attiene alla malattia in sé, ai suoi effetti fisici, le cellule che distrugge, le capacità che sottrae, e questo rappresenta un 40% del problema; l’altro aspetto riguarda la risposta sociale alla malattia: i medici la conoscono? È una malattia che può essere guarita? La società la accetta? Nella mia esperienza con la MH la risposta sociale crea il 60% del problema.
Ogni scelta, terapeutica o assistenziale, che viene fatta nel fornire i servizi si fonda su valori diversi: se pensiamo la vita in termini puramente biologici allora i servizi avranno come obiettivo la semplice sopravvivenza, se pensiamo la vita in termini di spiritualità individuale, in termini di diritto per ciascuno di esprimere al meglio le proprie capacità, allora i servizi devono avere come fine la qualità come contrasto all’inesorabilità del destino del paziente.
Concludo condividendo con voi questa riflessione: quando ho letto Piano Nazionale Demenze ho provato un certo disagio, come un venir meno a un principio di lealtà che sempre mi lega ai pazienti.
Perché connotare tanti individui con un termine fortemente stigmatizzante e carico di disprezzo nel linguaggio corrente? Il Piano non potrebbe, più rispettosamente, chiamarsi per Piano Nazionale Malattie Cronico-Degenerative?
Se anni fa la debolezza ispirava un senso di protezione oggi abbiamo evidenza che può scatenare anche violenza e aggressività.
E’ stato segnalato in Associazione il caso di una paziente cacciata da un parco pubblico insieme alla sua assistente a causa dei suoi movimenti involontari, le hanno urlato che chi è malato deve stare a casa e non dare spettacolo fuori. E nessuno dei presenti l’ha difesa.
E’ noto che la pandemia ha creato conflitti tra generazioni: non pochi giovani si sono chiesti perché sacrificare la loro libertà per proteggere gli anziani dal contagio: non sarebbe solo selezione naturale, dopotutto?
Perciò, stiamo attenti a non creare categorie di individui di serie b. La prossima domanda potrebbe essere: perché, soprattutto in tempi di crisi economica, destinare denaro e risorse a dementi inguaribili?
Integrazione non è solo un problema di migranti: anche persone malate, con evidenza esterna di malattia, incontrano già difficoltà di patria.
*Gioia Jacopini, Ricercatore Associato ISTC/CNR
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