L’AICH-Roma Onlus desidera complimentarsi con la ricercatrice Marta
Valenza, del gruppo di ricerca della Senatrice e Prof.ssa Elena
Cattaneo, che questa mattina ha ricevuto il Premio Sapio Junior 2005.
Questa l’intervista rilasciata dalla Dott.ssa Valenza a DA44
Ha vinto il Premio Sapio Junior 2005 e oggi svolge la sua attività all’interno del laboratorio diretto dalla Prof.ssa Elena Cattaneo, continuando a fare ricerca sulla Malattia di Huntington. Storia di una passione che si trasforma in lavoro, fatto di entusiasmo e responsabilità.
Intervista a Marta Valenza – Senior Postdoctoral Fellow, Università di Milano, Cattaneo Lab
Si è laureata in Scienze Biologiche nel 2001 e ha ottenuto il Dottorato di ricerca nel 2006 presso l’Università degli Studi di Milano. Oggi è ricercatrice presso la stessa Università e svolge la sua attività di ricerca nel laboratorio diretto dalla prof.ssa Elena Cattaneo. Ha deciso di iscriversi a Scienze biologiche quando frequentava il quarto anno di Liceo Scientifico.
Quell’anno a suo padre fu diagnosticato il morbo di Parkinson, a soli 52 anni. Da quel momento ha iniziato a studiare il cervello, era affascinata dalle sue potenzialità e allo stesso tempo colpita da come queste vengono progressivamente distrutte quando vi è una malattia neurodegenerativa. Da allora ha capito l’enorme valore della ricerca scientifica in campo biomedico e voleva, in qualche modo, dare il suo contributo.
Dott.ssa Valenza, su quali linee di ricerca si sta concentrando oggi il suo lavoro?
La mia attività di ricerca è mirata allo studio di disfunzioni che avvengono precocemente nella malattia di Huntington, una malattia neurodegenerativa ereditaria caratterizzata da disturbi motori, cognitivi e del comportamento. In particolare, sin dall’inizio della mia carriera ho avuto l’opportunità di esplorare un aspetto della malattia che nessuno prima aveva considerato: il colesterolo cerebrale nella patogenesi dell’Huntington, linea di ricerca che ha poi caratterizzato tutto il mio percorso formativo.
Quali sono le attività del Laboratorio di Biologia delle cellule staminali e Farmacologia delle Malattie Neurodegenerative dell’Università di Milano?
Ho avuto la fortuna di essere protagonista di un percorso di ricerca che, come spesso accade in questo lavoro, nasce da un’intuizione avuta studiando un semplice modello cellulare di malattia di Huntington.
Da quell’intuizione, abbiamo costruito un’ipotesi di lavoro che, giorno dopo giorno, ci ha portato ad identificare una nuova disfunzione di origine cerebrale, presente sia in modelli animali di malattia che nei pazienti. Oggi, dopo tanti anni di ricerca di base mirata allo studio dei meccanismi alla base di questa disfunzione, stiamo sviluppando diverse strategie di interesse terapeutico in modelli animali della malattia, con l’obiettivo di trasferire poi questi risultati in clinica. È una soddisfazione enorme poter essere protagonisti di questo meraviglioso percorso, iniziato barcollando nel buio e nell’ignoto, che ha portato man mano alla consapevolezza che quell’intuizione era davvero la strada giusta da seguire. Sapere che i sacrifici di tanti anni di lavoro potranno contribuire a migliorare la qualità di vita dei malati di Huntington dà una gioia indescrivibile.
Parliamo del rapporto tra ricerca di base e ricerca applicata, tra ricerca e trasferimento di cure e terapie ai pazienti: per le malattie neurodegenerative, delle quali voi vi occupate, ci sono prospettive terapeutiche concrete?
Non esiste ricerca applicata senza ricerca di base, così come la ricerca di base fine a se stessa non ha valore se non è orientata a sviluppare qualcosa che potrà un domani avere un impatto sulla vita delle persone. Credo che sia un legame fondamentale e imprescindibile che ogni ricercatore dovrebbe tenere sempre a mente.Purtroppo spesso ci si dimentica che tutte le terapie, oggi considerate efficaci e sicure per i malati, sono il risultato di tanti anni di lavoro di ricerca di base e di studi pre-clinici in modelli animali condotti in modo rigoroso. È vero che questo è un processo molto lungo che può durare anche più di dieci anni, spesso pieno di ostacoli, ma è l’unica strada da seguire per sperare di arrivare ad una vera cura per i malati. Per quanto riguarda le malattie neurodegenerative è già stato fatto tanto e ci sono enormi prospettive, ma noi ricercatori abbiamo il compito di fare ancora di più. Nel caso della malattia di Huntington, purtroppo non esistono ancora farmaci in grado di prevenire, bloccare o rallentare la progressione della malattia.
Tuttavia, sono disponibili farmaci mirati ad attenuare alcuni dei sintomi, che migliorano la qualità di vita del paziente e dei suoi famigliari. Inoltre, si stanno sviluppando nuove molecole, basate sul “silenziamento genico”, in grado di spegnere la produzione della proteina mutata, che potrebbero rivoluzionare l’approccio terapeutico in questa malattia e non solo.
Come è composto il suo gruppo di ricerca e qual è lo spirito che anima soprattutto i più giovani?
Sono ricercatrice all’interno del laboratorio diretto dalla Prof.ssa Elena Cattaneo. Siamo una ventina tra ricercatori, assegnisti di ricerca, dottorandi, borsisti e studenti in tesi. Ognuno di noi mette a disposizione le proprie competenze per portare avanti diverse linee di ricerca, sviluppare nuove strategie, collaborando e condividendo difficoltà, gioie e soddisfazioni. È un lavoro di squadra in cui ognuno dà il proprio contributo per raggiungere degli obiettivi comuni che devono essere sempre rivolti ad ampliare la conoscenza. Lo spirito che anima il laboratorio è sicuramente l’entusiasmo ma anche la consapevolezza dell’enorme responsabilità sociale che si ha nel fare questo lavoro. I giovani rappresentano il futuro e nei loro confronti abbiamo un compito fondamentale: insegnare loro il metodo scientifico, fondamentale per portare avanti le proprie idee in modo trasparente e affrontare le sfide che ogni giorno devono affrontare. Consiglio sempre loro di cercare e cogliere le opportunità, anche quando queste sono nascoste. Di non aver paura di quello che sarà il futuro tra dieci o venti anni ma di perseverare sempre con lo stesso spirito con cui si sono avvicinati al mondo della ricerca. È un lavoro difficile, ma è anche un lavoro bellissimo che ti permette di continuare a pensare liberamente e a misurarti solo sulla base delle tue idee e dei risultati che hai ottenuto.
Fonte: DA44